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il gatto su instagram non è una cosa seria - figuriamoci sul sito

Io la quarantena non l’ho vissuta da sola, ma con Giava.


Giava è una Maine Coon di sei anni (fatti il 7 Marzo, è dei Pesci il che per un gatto fa un po’ ridere, ma spiega anche la sua capacità di guardare il cielo per ore) e quindi, in sostanza, siamo coetanee. Ci siamo trovate in due in 37 metri quadri, dipendenti l’una dall’altra, e di conseguenza invischiate fino al collo in un rapporto ambivalente che ha ritmato le nostre giornate. Personalmente, ho imparato moltissimo, e spero che lei se ne sia accorta.


Giava me la sono ritrovata per caso, all’inizio dovevo ospitarla per un mese, un’emergenza che si è trasformata in una perpetuità alla quale, lo confesso, non ho opposto più di tanto resistenza e in fondo neanche lei. Ho ancora sul vecchio cellulare il video di lei che atterra nel mio corridoio, e corre disperata da una stanza all’altra (sono tre, quindi povera fa delle corsette su quei polpastrelli pelosi che mi faranno sempre ridere) emettendo uno gnaulo da spezzare il cuore, gnaulo che risfodera quando usciamo di casa alle quattro del mattino per prendere qualche aereo economico che imbarchi anche lei, manifestando la sua presenza (ancora non ho capito se legale o no) al palazzo ancora addormentato, facendolo risuonare nella corte. Il melodramma finisce lì, perché già sul taxi si mette al finestrino, e non finirà di bearsi dei complimenti di tutti: famiglie con bambini, personale di sicurezza che blocca tutto quando la faccio uscire dal trasportino perché almeno i raggi x glieli risparmio e la porto in trionfo attraverso il metal detector, hostess sconvolte perché “neanche mi ero accorta che ci fosse”; in realtà ogni volta se la fa addosso durante il decollo, mentre io le tengo la zampa in un rituale che mi sono inventata per rassicurarla, ma è vero: non fiata.


Giava non fiata mai: non mento se dico che è in assoluto il gatto più paziente che abbia mai frequentato. L’ho vista accettare stoicamente carezze maldestre di bambini (che, tra parentesi, adora e cerca ogni qualvolta se ne manifesti uno – Giava ha una famille d’accueil con la quale, non ho dubbi, potrebbe piazzarsi senza colpo ferire grazie a Emile, il suo amico di 7 anni), mettersi con espressione neutra a zampe in avanti durante i miei rovesciamenti a testa in giù che secondo me lei apprezza moltissimo perché le stirano la schiena, guardare a malapena due gatti neri imbestialiti che le soffiavano sicuramente cose irripetibili da dentro i trasportini mentre lei si appoggiava regalmente fuori dal suo con le zampe davanti in una sala d’attesa piena zeppa di animali sul chi va là di ogni razza e dimensione.

Le zampe davanti gliele faccio sempre tirare fuori, perché va detto che Giava è una bestia di sei chili, un esemplare nanerottolo della sua razza imponente che può arrivare fino a 15. A prima vista fa paura a chi di gatti non se ne intende ma anche ai suoi colleghi, e sono certa che lei lo sa. Lo sa, si vede. Il suo aspetto è quello che si porta in giro ovunque, le permette di mettersi immobile a farsi annusare dagli altri gatti che ho sempre visto timorosi, e in fondo questo aspetto la penalizza ed è forse per questo che lei non soffia mai, sta lì come una sfinge nel tentativo di sembrare il più amichevole possibile.



Essere amichevoli: ecco, questo è stato uno dei primi scogli da superare con lei. Finiti i video di gatti che fanno le fusa e si contorcono in cerca d’amore, Giava manifesta amore, cura e attenzione condividendo lo spazio di chi ama (e perdonatemi per questa proiezione di sentimenti umani, che in generale aborro), sempre a distanza ma presente. Quando è in vena di coccole si sdraia di fianco al, e se è un giorno speciale appoggia la zampa al corpo del, fortunato/a. A volte cedo alla tentazione di allungare la mano per ricambiare il gesto e spesso lei si alza e si mette qualche centimetro più in là. Più chiaro di così. “La compagnia e la presenza delle gatte di questa razza diventano molto discrete” leggo in un articolo specializzato e questo mi rassicura: non mi odia, non sono io. È vero che a volte “dà i bacini” ma quasi solo agli uomini, probabilmente per il sollievo di vedere qualcosa di diverso dalle sue due coinquiline. Durante la pandemia ne dà ogni tanto anche alla sottoscritta, avrà intuito che la situazione è grave.


Già, la pandemia. Quando hanno iniziato i confinamenti ero nella Loira per una residenza e ho detto a un amico che di Milano: se chiudono tutto anche qui, questa esperienza me la voglio fare con Giava, voglio tornare a casa. Sono stata accontentata nel giro di due giorni. Pubblico quasi subito una foto di Giava tra le mie braccia in cui dichiaro “adesso capisco davvero il significato di animale da compagnia”. Povera, stupida, illusa umana.


Nell’ultimo anno –invecchiando, Giava cambia, come tutti gli esseri viventi- ha aggiunto al suo repertorio di gnauli esatti e contati (ho fame! Sveglia c***o sono le 8! Sveglia c***o sono le 5! L’ho fatta! Forse non hai capito che l’ho fatta e devi pulire immediatamente!) un sospiro; meglio, qualcosa a metà strada tra un sospiro e uno sbuffo, che lei fa rigorosamente col naso guardandoti fissa o, nella versione esasperata, alzando gli occhi al cielo. Queste non sono proiezioni né allucinazioni di una memère à chat, chiedete a chiunque l’abbia scocciata almeno una volta. Ecco, dopo la prima settimana di lockdown in cui la coprivo di baci una volta ogni trenta minuti, Giava mi ha fatto chiaramente capire che non era aria, triplicando gli sbuffi ma soprattutto voltandosi dall’altra parte se entravo nella stanza in cui si trovava lei o cambiando sistematicamente location per la sua siesta quotidiana di sei ore, a una distanza massima da me. All’inizio questo mi ha ferito. Ne parlavo a tutti durante quelle videochiamate che dopo sei settimane mi sono diventate praticamente insopportabili (l’amico di cui sopra ironizza: Giava ha preso tutto da sua madre), ma la realtà è che eravamo due esseri viventi che si dovevano spartire une ben misero territorio, ventiquattro ore su ventiquattro, questa la novità. Leggo allora qualche articolo, e pare che il gatto percepisca le nostre umane coccole come un’aggressione, per esempio: abbracci e baci non sono il codice di tutti, sorpresa. Pensate se qualcuno grande cinque volte voi vi sollevasse da terra o dalla sedia o da dove state vivendo in santa pace la vostra vita, a intervalli regolari, stringendovi e forzandovi che so, a sopportare ogni volta le dita negli occhi o una tirata d’orecchie.


Long story short, ho iniziato a lasciarla essere. E per l’ennesima volta Giava mi ha dato una gran lezione. Ormai la osservo a distanza quando guarda i piccioni dalla finestra aperta (ho concluso che è il suo lavoro, se si vuole ancora andare in direzione delle proiezioni) e lo fa totalmente, con tutta sé stessa, il corpo teso, i baffi che vibrano, la coda che si muove a piccoli scatti in unisono con l’eccitazione e per prepararla a un balzo che –sic- non effettuerà mai. Quando dorme, non la strappo più ai suoi sogni, ho iniziato a disegnarla, che mi sembra un modo di toccarla se volete anche più intenso. La mattina abbiamo un rituale per cui sì, lei ha diritto di presentarsi in camera mia per buttarmi giù dal letto, ma mi lascia cinque minuti in cui faccio uscire una mano da sotto le coperte (sì, ti ho sentito, arrivo) e lei ci si struscia secondo il suo piacere, indicandomi in che punti grattarla, per quanto tempo. E per la prima volta in anni, fa le fusa.


Una volta ero a tavola con una persona che mi ha detto: non capisco assolutamente la fascinazione per gli animali. A me non dicono niente. Mi ha fatto molta pena; dal mio punto di vista si perde tutta una fetta di mondo alla quale da qualche mese, grazie a una serendipità quasi ininterrotta di incontri, letture, parole, immagini, ho finito per appioppare il termine “alterità”. La fatica che si fa davanti a quello che non ci somiglia, che non ci corrisponde, è la fatica davanti a ciò che è altro. E la fatica si può trasformare in fascinazione continua e meraviglia, recuperandola forse da un’infanzia dimenticata, ma qui mi fermo perché mi lancio in concetti filosofici che non voglio propinare a nessuno. Sappiate solo che sono i concetti che nutrono la mia ricerca, artistica e umana.


Giava, Giavi, Lollibubi, Lolli, Cippirimerla, Cipolla, Cipo, Cipocipolla, Amore, Giavottibus, Giavibus, Giavinzi, Giavotti, Giavibussi, Ciupi, Ciupilla, Choupinette: colei che in realtà al secolo è Java de Manicougan, ha tanti soprannomi (anche questi sopportati stoicamente e anche riconosciuti oserei dire) quanti sono i suoi estimatori. Mi scrivono sconosciuti su Instagram per dirmi che li fa troppo ridere (alla faccia di una vocina che fingo di non riconoscere che dice: il gatto nelle stories non è da artista seria!), il mio compagno mi dice “mi mancate te e la Giava” e quella che ho fatto l’errore di considerare una sdolcinatura all’inizio mi rendo conto adesso, dopo due mesi, che era una realtà di fatto: la fortuna di essere confinata con un Altro essere vivente – che vabbè, è anche silenzioso e gestibile, lo ammetto. Chi l’ha potuta frequentare la ama: questo è il termine giusto, perché nonostante la sua altezzosità Giava adora la compagnia, e ogni volta che c’è un gruppo di persone lei si piazza di fianco, come se fosse invitata alla festa; ma che dico, siamo in casa sua, è lei che ci invita. Tra gli innumerevoli film (troppi dei quali inutili, ma pur sempre visti con lei al mio fianco) digeriti in pandemia trovo nel meraviglioso Picture Of Light l'intervista a qualcuno che guida la slitta trainata dai cani, nell'estremo nord del mondo: alla domanda "i cani sono i suoi migliori amici?" l'uomo, col volto indurito dal freddo e da una vita che proprio generosa non deve essere, ma anche un sorriso aperto e -non saprei come altro descriverlo- consapevole, risponde, dopo averci regalato un'espressione che da sola commenta la domanda "non sono miei amici. I cani sono cani, e io per questo li rispetto. E loro rispettano me".


In questo momento di immobilità penso spesso (o il meno possibile, dipende da come si calcola il tempo che si dedica a immagini in archivio “nel retro della nostra testa”) alla casa vicino al mare dove da un po' di tempo abbiamo stabilito la tradizione di riunirci con gli amici di una vita. Un posto dove non c’è niente, una strada modesta, un’atmosfera irrimpiazzabile. E ci vedo seduti a chiacchierare sullo scalino in pietra fuori dalla casa, nella notte estiva, con, a distanza di sicurezza – e qui tutta la poesia finisce in risata, com’è giusto che sia- Giava in esplorazione “che striscia sui gomiti come un marine*” – *sempre l’amico di cui sopra.

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